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21/12/2022
Indonesia, un arcipelago da scoprire
Canang Sari, l’offerta agli Dei
Chiunque abbia passeggiato per Bali avrà notato dei piccoli cestini di foglie di palma, pieni di riso, fiori colorati, cibo, sigarette e incenso, sistemati davanti a ogni porta d'ingresso che si possa varcare, sia delle case, sia dei templi o dei negozi. I Canang Sari vengono dati agli dei ogni mattina dai balinesi di fede induista come forma di ringraziamento per l'equilibrio e la pace nel nostro mondo che si rinnova ogni giorno. Le piccole offerte sono il risultato di un laborioso lavoro manuale. Infatti, le donne realizzano il cesto, raccolgono le donazioni che devono essere sistemate in un certo modo e intingono un fiore di jepun nell'acqua benedetta per spruzzare il canang in una simbolica fusione dei quattro elementi. Il rituale termina con una piccola preghiera pronunciata mentre il fumo dell'incenso che brucia porta l'essenza dell'offerta agli dei.
 
Mentre la maggior parte delle usanze religiose sono fatte con lo scopo di ottenere il favore di Dio, i Canang Sari sono pensati come atto di eterna gratitudine. Realizzati con foglie di cocco, noce di betel e lime, la loro base simboleggia tre poteri – creazione, conservazione e unità – incarnati dalla trimurti induista: Brahma il Creatore, Vishnu il Conservatore e Shiva il Distruttore, ma anche Benaugurante.
 
Anche ogni diverso colore di petalo ha un doppio significato: una relazione con un dio e una direzione. I petali bianchi a est sono per Iswara, il dio della natura; i petali rossi a sud sono dati per Brahma, a simboleggiare il potere della creazione Mahadeva e l'ovest sono rappresentati da petali gialli e il blu o il verde è il colore del nord e del dio protettivo Vishnu.
 
È normale vedere del denaro in cima all’offerta, inteso a esprimere l'altruismo. Anche gli alimenti, come le caramelle, i cracker e i biscotti, sono spesso posti accanto ai petali di fiori, quindi il Canang Sari può anche servire allo scopo di nutrire cani randagi, scimmie e altri animali. Così, mentre i passanti più o meno abili cercano di evitare queste offerte, formiche, uccellini, cani e gatti ne approfittano.
 
Se accidentalmente vi capitasse di calpestarne uno e cercaste di rimediare chiedendo scusa a un balinese, vi risponderanno con un sorriso che non è un grosso problema. Ciò che conta con il Canang Sari è compiere un’azione gratuita destinata agli altri. Dare piuttosto che ricevere. Per ringraziare gli Dei, ogni mattina, per il loro dono della vita, dei successi, dei bei momenti... invece di scendere nell'autocommiserazione per quello che ci manca.

I bathik giavanesi
Ancora oggi si rischiano molte confusioni quando si parla di Bathik. Bathik africano, bathik indiano, bathik di Bali? Per gli amanti di questa dottrina è come confondere l’espressionismo francese e il naif haitiano, perché sono entrambi dipinti con la stessa tecnica di olio su tela. Il Bathik infatti non è uno stile unico, ma è il termine con cui si vuole definire una tecnica di colorazione dei tessuti in negativo, usando la cera come coprente impermeabile.
 
Non si sa più quando si è scoperto che l’indigofera poteva tingere l’acqua di blu profondo e scuro e che la pezza di cotone con cui si cingeva la vita, immersa in quell’acqua e poi lasciata asciugare tratteneva quel colore. Da allora molti popoli hanno usato i colori vegetali e hanno scoperto che la tintura si manteneva integra sul tessuto e non scoloriva al lavaggio o al sole, se il bagno di colore veniva dato più volte in brevi e successive immersioni a freddo e poi il veniva tessuto lasciato al sole in lunga esposizione per l’ossidazione.
 
Dei tessuti monocromatici però non sembravano interessanti e quindi sorse il problema di come disegnare sul colore: non si poteva usare uno strumento intinto nel colore e tracciare con esso i segni desiderati sul tessuto, poiché sarebbero scomparsi dopo pochi lavaggi o scolorito sotto il sole.
Bisognava quindi combinare le immersioni brevi e susseguenti nella tintura con la possibilità di lasciare dei disegni sul tessuto: quindi agire al negativo, cioè trovare una cortina all’assorbimento del colore là dove si voleva che il segno bianco del disegno risaltasse dopo le successive e prolungate immersioni nei bagni di tintura.
 
Si pensò quindi di continuare nella tintura di tutto il tessuto nel colore vegetale, più volte e a freddo, coprendo però alcune parti con materiale che impermeabilizzasse il cotone e impedisse su quelle parti l’assorbimento del colore: alcuni usarono la pasta di riso, altri la fecola, altri ancora legarono strettamente parti delle pezze con fibre vegetali. Ci fu infine chi provò a ricoprire con la cera le parti che non si volevano colorare e il bathik è proprio questo.
 
la tecnica di colorazione a cera è così antica che fino ad oggi gli studiosi non sono riusciti a trovare dove e quando è iniziata tale tecnica. Secondo la studiosa Ila Keller, alcuni ritrovamenti archeologici provano come questa tecnica venisse usata in Egitto e in Persia ancora prima dell’inizio dell’era cristiana. Nel 70 d.C. Plinio il Vecchio descrive una tecnica usata per colorare i tessuti egizi, simile al processo del bathik. Questo metodo di colorazione veniva certamente usato nel 700 in Cina e alcuni archeologi hanno scoperto in Giappone stoffe cinesi bathik risalenti alla dinastia Tang. Con la tecnica bathik vengono colorati tessuti in moltissime regioni del mondo, dall’Africa al Giappone, dalla Cina all’India, da Ceylon al Perù.
Per gli studiosi tessili l’Indonesia è uno dei paesi di più ricca tradizione, forse il più ricco per varietà e complessità. Tra le varie tecniche usate in questo paese, una dele più note è certamente il bathik giavanese: per vastità di stili e disegni, per la raffinatezza della tecnica usata, per la cultura da cui nasce e, quindi, per i significati di cui è impregnato. Quando la tecnica del bathik sia arrivata a Giava è molto difficile da stabilire. Sicuramente l’India ha avuto un’influenza sulla cultura dei tessuti in Indonesia, essendo frequenti gli scambi commerciali tra questi due paesi fin dai tempi antichi.
 
Gli strumenti. Il canting è un piccolo strumento che permette di disegnare la cera sul tessuto non più a grandi masse, ma a linee anche sottilissime e a piccoli punti. La cera viene raccolta nel piccolo serbatoio di rame inserito in un bastoncino di terong (pianta della famiglia delle solanaceae simile al bambù). La parte in rame termina con un beccuccio (cucuk), più o meno sottile, secondo il disegno che si intende tracciare. A volte il canting ha più beccucci insieme per consentire il disegno di più punti o di più linee di cera contemporaneamente.
 
Il gawangan è il supporto composto da due barre verticali che ne sorreggono una centrale e orizzontale, dove il tessuto viene poggiato e può agevolmente scivolare durante la lavorazione.
 
Le pezze di cotone venivano sottoposte a un lungo processo prima che si potesse passare alla fase del disegno con il canting. La prima operazione è un accurato lavaggio del tessuto. Il tessuto è già tagliato a misura del suo uso finale (sarong, kain panjang, slendang…). Poi le pezze di cotone, dieci alla volta, vengono immerse nel londo. Il londo è un liquido che viene preparato usando due recipienti d’argilla. Il primo, forato nella parte inferiore, viene riempito con una mistura di acqua e cenere di legno, così che l’acqua filtrata dalla cenere passi nel secondo recipiente posto sotto al primo. Questa operazione viene ripetuta più volte e poi il londo viene arricchito con olio di arachidi e diviso in due parti uguali. Il cotone immerso nella prima porzione vi rimane finchè tutto il liquido non viene completamente assorbito. Passati dieci giorni la prima metà del londo si è consumata e tutta l’operazione viene ripetuta con la seconda metà del liquido per altri cinque giorni. Il cotone così impregnato, viene sommerso infine in una mistura di farina e altri componenti. Poi le pezze vengono lavate in acqua.
 
Il tessuto ormai ben inamidato viene esposto alla rugiada mattutina per alcuni giorni, perché scompaiano pieghe e rigidità superflua. Quando il cotone è sufficientemente inumidito viene piegato lungo la sua lunghezza per l’altezza di una spanna, appoggiato su un basamento di legno e battuto con uno speciale martelletto di legno per ammorbidirlo.
 
La preparazione della cera e la successiva fase della preparazione del colore erano strettamente segreti. Generalmente si usava cera d’api cui venivano aggiunte resine diverse. La cera doveva infatti acquisire la giusta densità, in modo che scaldata permettesse una perfetta “scrittura” sul tessuto e una sufficiente morbidezza per non spaccarsi durante la manipolazione e il processo di tintura.
La cera viene disegnata con il canting su entrambe le parti del tessuto, così che non esiste nel bathik un diritto e un rovescio e il disegno si presenta identico su entrambi i lati. Dopo una prima ceratura la pezza di cotone viene immersa a freddo, più volte e per tempi brevi, nelle vasche di bagni di colore, che impregna di tintura solo le parti scoperte dalla cera e si lascia quindi asciugare il tessuto al sole. Dopo la tintura il tessuto viene immerso in acqua bollente per far sciogliere la cera, così sul cotone il bianco dei disegni eseguiti con il canting spiccherà sul fondo colorato.
 
Estratto dal catalogo della Mostra “Bathik: simboli magici e tradizione femminile a Giava


L’Isola di Sulawesi, i Toraja e la morte
 
A metà strada tra il Borneo e la Nuova Guinea si estende la massa terrestre con “quattro gambe” di Celebes, che è stata comparata ad un’orchidea o a un ragno, a seconda di chi la guarda. L’isola si presentò ai primi navigatori Europei con una conformazione così complessa che essi inizialmente pensarono che si trattasse di più isole e il nome al plurale rimase fino all’indipendenza dell’Indonesia quando Celebes fu rinominata come Sulawesi e la sua capitale Makassar, diventò Ujung Padang.
 
La dorsale montuosa dell’isola rimase inesplorata fino alla fine del ventesimo secolo. Fu solo allora che il popolo Toraja ‘le persone dall’alto’ si rivelò. Essendo diversi etnicamente a qualsiasi dei loro vicini, la loro origine ha fatto sorgere diverse teorie antropologiche, ma quando si chiede agli stessi Toraja da dove vengono, essi rispondono: ‘Prima dell’alba della memoria umana i nostri antenati discesero dalle Pleiadi con delle astronavi’.
 
Essi costruiscono ancora le lor case con delle forme arcuate come quelle delle navi che li hanno portati sulla terra e i loro riti funebri, hanno lo scopo di ‘lanciare’ le anime dei morti sulle stelle delle loro origini.
 
Il popolo Toraja, sembra più simile ai Cambogiani o ai Siamesi, piuttosto che ai malesi della costa. Alcuni antropologi ritengono che essi vengano dalla Cina o che siano giunti in barca dalla Birmania o anche dall’Himalaya.
 
Sembra che i Toraja siano stati cacciatori di teste fino agli anni ’20 del 1900, ma essi erano temuti dai loro vicini, meno per la loro ferocia e di più per la loro magia, parte della quale era la loro reputazione di essere in grado di far camminare i morti. I guerrieri Toraja dovevano morire nel loro Rante, o area del villaggio, affinchè la loro anima tornasse sicuramente verso le stelle. Se succedeva che morissero al di fuori del Rante, allora gli sciamani, ’potevano far rivivere i loro cadaveri abbastanza a lungo da permettere loro di tornare a casa con le proprie forze, anche senza la testa’.
 
Werner ha sottolineato che nei Toraja possiamo trovare diversi aspetti: erano cacciatori di teste, credevano nella loro origine celestiale, praticavano un megalitismo primordiale, costruivano edifici sofisticati e utilizzavano una lingua scritta (o piuttosto scolpita e scritta) unica. Tutte le case mostrano questi glifi, che assomigliano alle spirali e agli yantra del Tantrismo che raccontano l’intera storia della tribù, del clan e della famiglia.
Presso i Toraja negli anni ’70 esisteva ancora la schiavitù, ma non nella forma che abbiamo imparato nei libri di storia. I Toraja acquisivano gli schiavi come eredità, ma essi erano ‘anime libere’ e spesso diventavano più ricchi dei loro padroni. Un figlio di un nobile aveva uno ‘schiavo’ della sua età a lui assegnato dalla nascita che in seguito andava a scuola con lui a Makassar e qualche volta anche all’Università.
 
Negli anni ’60 del 1900 il governo ha cercato di ridurre la confusione riguardo le religioni animiste, abolendo la pratica di tutte ad eccezione di cinque religioni ufficiali. Queste erano Islam, Induismo, Buddhismo, Cristianesimo e, poiché Bali era già conosciuta internazionalmente, è stata inventata la categoria della religione ‘Indo-Balinese’. Ciò avrebbe reso la religione toraja illegale se non fosse stato per un giovane ‘schiavo’ Toraja che aveva studiato legge. Egli aveva brillantemente sostenuto che la religione toraja era come ‘l’animismo Indo-Balinese’ e questo ha reso possibile la sopravvivenza della stessa.
 
Il Sud Sulawesi ospita una pittoresca valle circondata da montagne ricoperte di nebbia. Questa valle si chiama Tana Toraja, o Torajaland, e offre ai visitatori con lo stomaco forte la possibilità di vivere una delle celebrazioni più singolari e strane della vita. La gente di Tana Toraja pratica una complessa cerimonia funebre nota come Rambu Solo che impone che il defunto possa essere seppellito solo durante un certo periodo dell'anno. Per questo motivo, Tana Toraja ha una stagione funebre che va da giugno a ottobre, i mesi più secchi nel Sud Sulawesi. Il motivo è anche dovuto al fatto che un funerale di questo tipo richiede una grande somma di denaro e anche che siano invitati tutti i parenti, vicini e lontani.
 
Tana Toraja è un mondo strano dove i morti non sono sempre morti. I cari defunti sono semplicemente considerati makula, o malati. Il defunto considerato makula rimane in una bara sigillata e viene tenuta in casa con la famiglia fino a quando non hanno messo da parte abbastanza soldi per organizzare una grande festa di commiato. Ottenere abbastanza soldi può richiedere più di un anno. Fino ad allora, la bara rimane in casa con la famiglia. In passato le famiglie usavano le erbe e il fumo dei fuochi ardenti per conservare i resti, ma oggigiorno la formalina è più comune.
 
Durante il periodo che precede il funerale, i membri della famiglia portano del cibo al defunto un paio di volte al giorno e parlano con loro come se fossero ancora vivi. Fino a quando il primo bufalo non sarà macellato al funerale, le loro anime non inizieranno il loro viaggio lasciando questa terra. I toraja credono che il sangue debba essere versato sul terreno per facilitare il viaggio di un'anima verso la terra delle anime. Più bufali, più sangue e più veloce è la transizione.
 
Il giorno del funerale devono essere sacrificati un minimo di 6 bufali d'acqua, ma si può arrivare a sacrificarne anche un centinaio. Il costo dei bufali è piuttosto elevato e ancor di più per i bufali albini che sono una rarità. Questo spiega perché a volte ci vuole un anno o più prima che il funerale possa aver luogo. La città di Rantepao è la capitale di Tana Toraja e una base perfetta per esplorare la valle e partecipare a un funerale.
Dopo il funerale le bare vengono portate, o all’interno di grotte dove sono accatastate una sopra l’altra oppure in cunicoli scavati nelle parti rocciose. Il villaggio di Lemo è uno dei luoghi di sepoltura più famosi. All’esterno dei luoghi di sepoltura, vengono posizionati i cosiddetti tau-tau, delle effigi di legno a grandezza naturale, che sono sistemate su un balcone scolpito nella parete rocciosa. Queste figure rappresentano i morti e mentre nel passato le effigi venivano scolpite in modo approssimativo, oggi lo scultore cerca proprio la somiglianza con il defunto. I parenti vengono ancora a visitare le bare e le ossa e portano loro doni di delizie terrene.
Quando un bambino muore prima di avere i denti, non viene seppellito nelle bare. Un piccolo foro è scavato nel tronco di un grande albero abbastanza grande da contenere il corpo. La madre poi avvolge il corpo in un panno e lo mette dentro. Il buco viene quindi sigillato con la corteccia e mentre l'albero guarisce nel tempo, il tronco dell'albero ne assorbirà il corpo. Il popolo Toraja infatti, crede che lo spirito del bambino cresca con l'albero.
 
Le cerimonie Toraja però non finiscono qui. Infatti, se si è “fortunati” è possibil assistere al ma'nene, un rito per rendere omaggio agli antenati, che si svolge dopo la raccolta del riso in agosto. I cadaveri vengono rimossi dalle loro tombe, curati e vestiti con abiti nuovi. Alcuni indossano occhiali da sole e jeans, altri abiti di raso bianco delicatamente decorati con perline e orecchini gioiello.
 
A noi può sembrare strano, ma i Toraja sono completamente a loro agio tra i morti. La morte per loro è molto meno definitiva che per altre culture, è più un passaggio da un luogo all'altro che una fine amara. Non è raro che le persone rimangano nelle case delle loro famiglie per anni dopo la morte. In effetti, è solo al funerale che una persona è considerata morta.
 
Per secoli i Toraja sono stati praticamente tagliati fuori dal resto del mondo. La loro religione tradizionale, Aluk To'dolo, una combinazione di culto degli antenati, mito e sacrificio animale, che veniva tramandata oralmente. I Toraja credevano che i loro antenati discendessero dai cieli. Dopo un funerale, sarebbero tornati nel regno delle anime nel cielo, noto come Puya.
 
Nel 1913 i missionari olandesi fondarono scuole a Toraja e la maggior parte della popolazione si convertì al protestantesimo o al cattolicesimo romano. Tuttavia, nonostante la pratica del cristianesimo, i riti funebri Toraja contemporanei, compreso il sacrifico del bufalo, continuano ad essere fortemente influenzati dall'antica religione. "I vecchi rituali non si stanno estinguendo, sono stati integrati nel cristianesimo", afferma Eric Crystal Rante Allo, esperto di diritto consuetudinario.