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17/11/2022
Bhutan e Nepal: i Regni Himalayani
Bhutan, il paese della felicità nazionale lorda
Il Bhutan è un paese profondamente impregnato delle tradizioni Buddhiste Vajrayana, che ebbero origine con l’arrivo e l’influenza positiva del Guru Padmasambhava nella metà dell’VIII secolo d.C. Vajrayana è spesso tradotto come ‘sentiero indistruttibile’, che utilizza mezzi abili e saggezza per rimuovere gli ostacoli e le difficoltà che si incontrano durante il viaggio verso l’illuminazione. Seguire questo sentiero richiede una straordinaria devozione e un’intelligenza superiore da parte dei praticanti. Oggi, il Bhutan è l’unico paese al mondo dove il Buddhismo Vajrayana è religione di stato e i suoi principi guida sono incorporati nella politica del governo.
Oggi, sempre più persone si interessano al Bhutan e molti osservatori internazionali lo considerano una terra della felicità, soprattutto come risultato del fatto che il governo ha alimentato e sviluppato il concetto di Felicità Nazionale Lorda (GNH). Questo concetto è stato introdotto per la prima volta dal visionario Druk Gyalpo Jigme Singye Wangchunck, il Quarto Re del Bhutan ed è considerato essere una delle più importanti innovazioni nella storia Bhutanese. La politica della Felicità Nazionale Lorda ha molte componenti: una delle linee guida è quella di cercare di preservare e promuovere la cultura tradizionale unica del Bhutan. Questo è molto visibile nei festivals locali e nelle cerimonie tsechu a livello di distretto.
 
In termini generali, la felicità può essere definita come uno stato mentale positivo e opposto alla sofferenza. Poiché l’obiettivo finale del Buddhismo è quello di creare le condizioni per eliminare la sofferenza, questi festivals possono essere considerati manifestazioni di queste aspirazioni Buddhiste, offerti al pubblico per fornire sia insegnamenti che esperienze dirette legate al sentiero verso l’illuminazione.
I Tsechu (i festivals sacri) sono tenuti generalmente nei monasteri, dzongs, o templi di una comunità. L’atteggiamento mentale positivo che ne ricavano quelli che vi partecipano diventa sia una causa che una condizione di uno stato mentale positivo duraturo. I Tsechu promuovono un ambiente nel quale tutti i membri della società, indipendentemente dalla posizione sociale, vengono insieme per essere intrattenuti e coltivano un atteggiamento armonioso. Questo stato d’animo determina azioni positive per tutti i partecipanti e, per questa ragione, ci sono centinaia di Tsechu in tutto il paese. I maggiori si svolgono a Thimpu, Paro e Bumthang.
 
In Bhutan si ritiene che lo Tsechu sia un meccanismo ideale per promuovere la felicita e l’armonia e rafforzi la comunità e i legami sociali. A queste rappresentazioni della cultura tradizionale è data grande priorità e rispetto da parte di tutti i livelli della società Bhutanese e funzionano come una manifestazione della politica della Felicità Nazionale Lorda.
La maggior parte dei festival Tsechu danno risalto a danze sacre che furono stabilite dai maestri del Buddhismo Vajrayana e comprendono molti dei suoi insegnamenti. Lo scopo principale del praticare il Buddhismo è quello di raggiungere l’illuminazione e ci sono infiniti modi per raggiungerla. Per un individuo, essere semplicemente presente e vedere queste danze sacre, con l’atteggiamento giusto e l’intenzione pura è considerata un’opportunità favorevole. Questo vale per tutti i presenti, inclusi i danzatori, che possono essere liberati dalla sofferenza che pervade la vita terrena. Questo potenziale per la trascendenza si estende anche agli animali e ad altri essere senzienti, come gli insetti, a cui capita di trovarsi in prossimità di queste manifestazioni.
 
Nella tradizione Vajrayana si dice che quando si aderisce agli insegnamenti Buddhisti, c’è la possibilità di raggiungere l’illuminazione nel corso della propria vita. Tuttavia, è necessario seguire i consigli e la guida di un maestro qualificato e il sentiero Vajrayana è considerato un mezzo veloce, ma molto difficile per farlo. Quindi i Tsechu sono si intrattenimento, ma soprattutto servono a ricordare ai praticanti le diverse dimensioni della tradizione Vajrayana, ma in un modo più gradevole.
Che siano organizzate da un villaggio o da un monastero dzong, le feste religiose rappresentano il punto più alto della vita di una comunità: danze rituali, ma anche folkloristiche che possono durare più giorni. Secondo la tipologia, i danzatori sono monaci o laici e possono portare o meno delle maschere. Le danze rituali, cham si dividono in tre categorie: sottomissione, vittoria e insegnamento. La coreografia, i costumi e le maschere delle danze di sottomissione sono spettacolari.

Le divinità assumono un aspetto terrificante per annientare gli spiriti nefasti simboleggiati da una figurina posta in una bottiglia nera triangolare. In alcuni dei Tsechu più importanti, come quello di Paro ad esempio, l’ultimo giorno, all’alba, dalla sommità del monastero dove si svolge il festival, viene srotolato un enorme pannello di tessuto, thongdrol che rappresenta il Guru Rimpoche Padmasambhava che porta la liberazione a coloro che lo vedono.

 


Nepal, Mustang, il Regno di Lo
Estratto dal racconto di viaggio di Antonio Cereda 2008
La decisione di realizzare l’avventura fu presa durante l’esplorazione del Terai quando mi trovai inaspettatamente coinvolto dall’amico Bhim, il boss del tour operator nepalese, in un trekking di due giorni nella zona protetta dell’Anapurna.
 
Da allora il bisogno, la voglia, la curiosità di approfondire e di dare una più solida base alla conoscenza della regione, mi portarono a leggere, seppure disordinatamente come è mia abitudine, delle esplorazioni, dei viaggi, delle avventure, degli incontri e degli incantamenti vissuti e descritti da altri viaggiatori: Tucci, Verni, Maraini, Peissel e Lucia Ghilardi il cui libro è alla base del nostro trekking in MUSTANG.
 
La febbre dell’Alta Quota ha subito coinvolto Anna e con lei, armato di carta topografica scala 1/80000, abbiamo iniziato a percorrere, con pennarelli di diverso colore, i possibili tracciati lungo i sentieri dell’Upper Mustang che da Jomsom, 2710 metri, portano in otto giorni di camminata sostenutaLo Mantang, 3780 metri. Poi da Lo Mantang, dopo una sosta di quarantotto ore, in altri sette giorni di marcia eccoci di ritorno a Jomsom.
 
Abbiamo segnato i percorsi fatti da altri avventurosi e dopo esserci consultati con l’amico Bhim, che ci accompagnerà anche in questo viaggio, è stato registrato sulla mappa il percorso definitivo: circa 220 chilometri. 4/7 ore di marcia ogni giorno, un passo a quota 4100 metri. I campi tendati (le tende) saranno posti quasi tutti ad un’altezza media di 3500 metri con punta a 3800.

5 Settembre

Siamo in volo! Prima tappa DOHA, Qatar.

Sappiamo che la “carovana”, la nostra, è composta da noi quattro, da tredici tra portatori, mulattieri e cucinieri, Bhim compreso, più sette muli! La lunga carovana si snoderà sugli arditi sentieri che, come antiche ferite, segnano i fianchi delle maestose montagne dell’Annapurna.
 
Mentre scrivo sono le 00,37 del 6 settembre e stiamo sorvolando il mare Egeo, direzione Turchia...
 
Sono le 07,00 di sabato mattina, 06 settembre, sala d’attesa aeroporto di Doha, gate 10, imbarco alle 09,05.
 
Sul volo mi sono finalmente addormentato, al risveglio guardo dal finestrino: sopra, in alto è tutto nero, poi volgo lo sguardo verso il basso dove una miriade di luci evidenziano i contorni di una grande isola che si allunga sino a perdersi nel buio: è l’isola di Cipro….segnali dell’uomo (terrestre) agli altri ospiti dello Spazio! Forse prima o poi questi nostri lontani, o lontanissimi coinquilini verranno a farci visita!?
 
 

6 Settembre

Kathmandu – DURBAR SQUARE – il sole ancora non illumina le strette vie, simili a canyon, che conducono alla Durbar Square di Kathmandu. È presto, le sette trascorse da poco, e solo ora si vanno formando i micro mercati di frutta e verdura che daranno colore e animazione agli antichi vicoli. I piccoli negozi che occhieggiano, senza soluzione di continuità, dalle case che fiancheggiano le strade, sono ancora spogli, più tardi assomiglieranno a una foresta di strani alberi dai cui rami pendono frutti inconsueti: abiti, scarpe, borse, tegami e pentole in rame, in alluminio, terrifiche maschere tibetane, marionette coloritissime, tessuti dalle infinite sfumature: verdi, gialle, azzurre, rosse. Cesti di paglia, contenitori di plastica dai colori accesi, grosse catene e grandi e grossi lucchetti. La gente si affanna a preparare banchi e banchetti, stendono stuoie sui porfidi scivolosi che lastricano la strada. Traffico di moto, biciclette, ciclo risciò, qualche raro taxi scalcinato, folle di donne e uomini appesantite da bilancieri o da gerle stracolme di tutto, vanno faticosamente verso destinazioni note solo a loro.

 
8 Settembre

Arrivo a JOMSOM

Sbarco dall’aereo un piccolo bimotore, pochi passi verso il terminal, non posso proseguire oltre, c’è nell’aria qualcosa che mi obbliga a volgere la testa, a girarmi: la rilucente, enorme massa di roccia e ghiaccio del Nilgiri si erge solitaria verso l’infinito cielo sovrastando ogni altra cima e mi fa sobbalzare il cuore e spalancare, incredulo, gli occhi.

La fioritura dei “buck weat” tinge di rosa tenero e di bianco i piccoli campi coltivati della valle di Jomsom creando l’illusione di un morbido tappeto che il vento scompiglia al suo passaggio.

Festoni di bandiere colorate garriscono al vento rilasciando nell’aria le preghiere e le invocazioni scritte sul tessuto.
 
Giovani monaci, nelle loro vesti tradizionali, seduti sopra delle stuoie, sono intenti a dar forma alle offerte che porteranno sugli altari del monastero. Sono piccole sculture di burro colorate di rosso e decorate con bandierine.
 
Una donna, simpatica, con il viso da luna piena e il corpo, abbondante, costretto dentro l’abito tradizionale osserva, con divertito disappunto la propria immagine ritratta, in tutta la sua radiosa rotondità, in una foto Polaroid e dopo alcuni commenti salaci tira fuori la lingua e fa sberleffi alla inaccettabile realtà.
 
Attorno al focolare di fango seccato, dove danzano allegre le rosse fiamme di un fuoco di legna, si agitano le donne intente a cucinare che, sorprese della nostra presenza sorridono timidamente del nostro essere diversi.
 

Tutt’attorno al monastero un rosario di piccole bronzee ruote delle preghiere, mosse dalla fede e dalle nostre mani, si rincorrono salmodiando all’infinito le suppliche di benevolenza incise sulla loro superficie.
 
Un muro bianco, tre canestri colmi di peperoncini rossi messi al sole a seccare. Una donna, i neri capelli raccolti attorno alla nuca a formare una treccia, orecchini e collana di corallo, si china per cambiarne la posizione e la sua ombra si adagia sul muro quasi volesse riposarsi.
 
Il cortile del monastero, bianche pareti, una porta rossa di legno laccato, piccole finestre incorniciate in rossi telai. Dalla terrazza che si apre sul sottostante cortile; guardo e ascolto il silenzio.

Chiudere gli occhi

“Chiudete gli occhi e immaginate una valle lontana in un regno senza tempo, quasi completamente isolato dal resto del mondo. Immaginate le alte vette dell’Himalaya tra il Nepal e il Tibet: maestose, silenti, solenni!
 
Questo è il MUSTANG il Paese più vicino al Cielo
 

9 Settembre 

Vi scrivo dal trekking, destinazione KAGBENI

Con il Nilgiri a Est e il Daulgiri a Ovest mettendo un piede, anzi uno scarpone, davanti all’altro lasciamo Jomsom e il suo relativo affollamento e percorrendo le sue strade lastricate di pietre d’ardesia, superiamo per la prima volta il grande fiume, il Kali Gandaki.

Camminiamo lungo l’argine di destra proseguendo in direzione Nord, verso Kagbeni meta del nostro primo giorno di trekking.

L’avventura ha il suo inizio, il sentiero scende verso il fiume che, in questo periodo dell’anno, a monsone terminato, ha una portata d’acqua limitata che lascia scoperte vaste zone del suo alveo.

L’acqua del Kali Gandaki forma una vasta rete di ruscelli che s’intersecano creando effimeri isolotti di sabbia e ghiaia, piccole lagune e schiumeggianti rapide rumorose che si precipitano tra grossi ciottoli e affioranti banchi di sabbia.

Ci inoltriamo nel greto del fiume completamente assorbiti dalla bellezza della natura che ci circonda.
 
“Come i fili dell’ordito e della trama sul telaio, gli innumerevoli rivoli d’acqua che si incrociano, si legano e si separano nel letto del fiume, creano un magico, liquido tessuto che risplende nella luce radente del mattino. La sponda di sinistra s’innalza in una parete di rossa arenaria solcata di contorte stratificazioni della roccia che si aggrovigliano in astratti, seppur solidi, ricami. Poi riprende lo slancio verso l’alto dove, inevitabilmente, si spezza annodandosi in forme tanto bizzarre quanto originali”.
“Il fiume è un magico scrigno che aprendosi svela i propri tesori nascosti. Nel suo greto disseminati tra la bianca sabbia e le migliaia di ciottoli, lì trasportati dalle acque dilavanti dalle cime dl sistema himalayana giacciono, in attesa d’essere scoperti, numerosi ammoniti fossili che si formarono 200 milioni di anni fa nel Giurassico, molto prima che comparissero sulla Terra i nostri progenitori (10 mila anni fa)”
 
A Kagbeni

Un vicolo lastricato s’inoltra nel dedalo delle costruzioni di Kagbeni. Un gruppo di donne, sedute sui gradini delle soglie delle loro abitazioni, si scambiano notizie e pettegolezzi, il chiacchierio s’interrompe al nostro arrivo e per un attimo ci osserviamo reciprocamente cercando di assimilare le diversità che ci fronteggia.
 
Un “namaste”  sorridente sblocca la situazione e poi il seguito è fissato nella memoria e sull’emulsione dell pellicola. Mentre la socializzazione prosegue intravvedo con la coda dell’occhio che da un passaggio coperto poco più avanti una donna, che stava uscendo, si è ritirata nascondendosi alla nostra vista. Con finta indifferenza spio l’androne, dove scorgo l’ombra della donna, mi fermo un poco più in la e mi apposto nell’attesa che accada qualcosa. Poco dopo dall’ombra esce una mano che timorosa si appoggia allo stipite rosso dell’ingresso quasi a prendere coraggio e uscire oltre la soglia e mostrarsi. Una mano che avrebbe una storia, una vita da raccontare, e così l’ho immortalata per conservare il ricordo di quella storia mai narrata.

10 Settembre

Vi scrivo dalla Narrow Windy road – destinazione TANGBE

Lasciamo, come sempre di buon’ora, Kagbeni e affrontiamo il nostro secondo giorno di trekking per raggiungere nel primo pomeriggio Tangbe.
 
Per la prima volta supereremo, anche se di pochi metri, quota 3000. 3060 per l’esattezza. Scorgiamo sulla riva opposta il villaggio di Tiri Gaon adagiato alla base di grandi formazioni di calcare grigio/azzurro che l’acqua e il vento hanno scolpito in enormi calanchi torreggianti sopra i chorten rossi e bianchi, e le modeste case del minuscolo borgo.
 
La fioritura delle spighe del grano saraceno, e di altri cereali, formano un delicato patchwork verde, rosa e bianco che si tende dal villaggio sino ai bordi precipiti del fiume come un lieve manto fluttuante nel vento.
 
Attraversiamo un paesaggio minerale splendido dove si susseguono, stupendo l’osservatore, formazioni e rocce sempre diverse: grandi calanchi di calcare bianco e giallo che paiono titaniche colonne messe a sorreggere, a contenere le enormi masse montuose da cui scaturirono.
 
Rocce brune e rossastre, ossidate dal vento, sorgono dalla terra in strati sovrapposti di grandi massicci, eleganti ed elaborati ventagli solo parzialmente aperti.
 
Rocce nere, alte creste seghettate dove s’impigliano le bianche nuvole, sospinte dal vento che scende dagli immensi ghiacciai del Nord, che poi si strappano in mille cirri delicati.
 
Torri calcaree, in cui si aprono finestre e portali, che le rendono simili ad antiche fortezze medievali richiamano alla mente le fantastiche formazioni della Cappadocia Turca.

Ed ecco apparire, dopo l’ennesima salita, Tangbe arroccata su un vasto promontorio che si allunga dentro il letto del Kali Gandaki.
 
Il monastero e gli stupa dipinti di ocra, più alti di tutte le altre costruzioni, di stagliano contro l’azzurro del cielo trapuntato di nuvole bianche e grigie. Campi coltivati, policromo emozionante quadro naturale, nei colori dominanti del rosa e del giallo completano la visione, per noi stanchi viandanti una promessa di un meritato riposo.
 
Il sogno è infranto da una discesa infame, un esteso ghiaione molto simile ad una lingua morenica ci impegna in un’impegnativa, prolungata derapata e allontana la meta e che pensavamo fosse lì, appena oltre il canyon.
 
Per la famigerata legge di Murphy che dice, cito ”Ciò che va male non può che andare peggio”, una volta sprofondati nel canyon ci si para innanzi, agli occhi increduli, una disperante salitaccia taglia gambe. Che fare? Ci mettiamo “le gambe in spalla” e affrontiamo il nostro incubo!
 
Giunti in cima ci accoglie, rassicurante, un grande chorten, dipinto a strisce bianche e ocra, che segnala l’ingresso in Tangbe. Alla sinistra del trail che stiamo percorrendo, tre chorten più piccoli, uno bianco, l’altro nero e il terzo arancione fronteggiano il falsopiano irto di “sand bar” (calanchi), dal quale siamo discesi e ci danno il benvenuto con la promessa che ci proteggeranno dagli spiriti maligni e dall’eccesso di fatica, richiesta questa non ufficialmente garantita, durante il soggiorno a Tangbe e per le successive tappe del nostro incredibile trekking.
 
Tangbe, nel giardino dell’Eden

Una grande tenda è la nostra sala per la cena di questa sera e per la colazione di domattina, due tende più piccole, ma spaziose, sono le nostre camere.
 
Non ci sarebbe nulla d’eccezionale se non fosse che il “campo” è stato approntato in un meraviglioso “meleto”! Scopriamo così che il Mustang è il Trentino del Nepal, mele piccole di due qualità, sembrerebbe, una verde e l’altra rossa, più aspra la prima, più dolce la seconda. Ambedue croccanti sotto i denti. Manca solo il consorzio della mela D.O.C. del Mustang!
 
Mele sino all’orizzonte visibile, il muretto che delimita la proprietà! Meli fitti, una foresta di meli. Mi aspetto che all’improvviso sbuchi fuori dal folto la “strega cattiva” con la mela rossa avvelenata o che un simpatico serpente verde, tipo “SirBiss” dondolandosi pigramente dal ramo del melo più prossimo, sibilando blandizie nell’orecchio di Anna le offra una bella mela verde colta furtivamente all’insaputa del proprietario! Il solito vecchio serpente, cambia la pelle, ma non il vizio!
 
Desidero viaggiare il mondo per scrivere delle fascinazioni incontrate e vorrei possedere obiettivi e fotocamera per fissare i colori delle emozioni? Ed ecco uno zaino con obiettivi, corpo macchina, flash, cavalletto….., unico inconveniente pesa troppo!
 
Desidero un caffè caldo alle cinque del mattino (mi sarebbe andato bene anche per le sette!) durante tutto il trekking? Ed ecco che puntuale e sorridente l’amico Furba Sherpa bussare, con la voce, al telo della tenda con il caffè bollente!
Desidero una mela? Un passo fuori dalla tenda ed eccola lì pronta per essere colta!
 
Il consueto raduno per nutrire i corpicini, quelli delle nostre compagne di vita e di viaggio, e i corpaccioni, i nostri è fissato per le ore 07,00 p.m. e noi affamati, malgrado avessimo divorato con morsi famelici un numero imprecisato di croccanti mele innocenti, siamo puntualissimi.
 
Entriamo nella mega tenda, togliamo gli scarponcini da trekking e ci accasciamo disordinatamente sui teli stesi a terra (niente sedie questa sera).
Le portate si susseguono con grande rapidità, così celere è il servizio che non mi ricordo assolutamente cosa ho appena terminato di masticare! Conversiamo amabilmente negli intervalli brevissimi che intercorrono tra una portata e quella successiva. Quando la piccola ciotola, che conteneva macedonia di frutta, sparisce dal tappeto (magico?) e le tazze per il caffè appaiono d’incanto, cogliamo segnali d’urgenza trasmessi alla nostra mitica guida, il guru Bhim, dai nostri portatori che compaiono sempre più frequentemente sulla soglia della tenda e poi scompaiono silenziosi. Tutto diventa ovvio quando, rotti gli indugi, due portatori più arditi o più stanchi, entrano nella tenda e vi depositano coperte e sacco a pelo! La sala a mangé, di notte, si trasforma in dormitorio per la truppa. Abbandoniamo velocemente il “ristorante” e cediamo la piazza al turno di notte!


11 Settembre

Vi scrivo dalla Clift Road – destinazione CHELE

Lasciamo il giardino dell’Eden e i suoi meli. Oggi ci attende una camminata breve, siamo ancora nella fase di acclimatazione, tre/quattro ore di percorso che si srotola tutto sopra i 3000 metri di quota.

Siamo sempre in vista del Kali Gandaki che abbandoneremo per entrare nell’Alto Mustang, stiamo percorrendo la “Clift Road”.  Il canyon formato dal Kali Gandaki ha pareti di rossa arenaria con venature giallo, ocra che tagliano la parete orizzontalmente per tutta la sua lunghezza, bianco calcare con sfumature azzurre, conglomerati di terra e sassi che formano grandi, friabili calanchi, rocce carsiche caratterizzate da centinaia di grotte e caverne e, sul fondo, l’affascinante reticolo dei molti ruscelli in cui sono frazionate le acque del grande “Fiume Nero”.

Per raggiungere Chele transitiamo sopra un ponte di ferro che supera il “fiume” e dopo esserci rinfrancati, con una tazza di the caldo e una barretta energetica a base di cereali, iniziamo ad arrampicarci seguendo le esili tracce che segnano l’estesa pietraia dell’impervia salita che conduce a Chele.
 
Mentre fatico a tenere un ritmo costante cercando di sincronizzare respiro e cadenza dei passi, sono superato da un drappello di donne elegantemente abbigliate nel loro costume tradizionale (etnia Gurung) che con passo fluido e chiacchierando allegramente, salgono con scioltezza, là dove io, arranco.
 
Dove vanno così di corsa queste eleganti, disinvolte signore? Trattengo la mia curiosità perché ogni mia energia è concentrata nel tentativo di raggiungere quel poggio lassù che sembra allontanarsi sempre più, abbasso la testa e senza più guardare in alto mi sospingo verso la meta!
 
Il villaggio è in fermento perché oggi, ci spiega Bhim, si festeggia il sessantesimo compleanno, che pare sia considerato un traguardo non così facilmente raggiungibile da queste parti del mondo, di una donna che è nata e vive a Chele.
 
Depositiamo il bagaglio nelle tende approntate su una terrazza prospiciente i campi coltivati, delicati acquarelli con tenue sfumature rosate. Dopo esserci rifocillati ci prepariamo ad esplorare il villaggio.
 
Seguendo il flusso della gente, superiamo un basso portale incorniciato da travi di legno dipinte a colori sgargianti, e ci ritroviamo in una piccola piazza rettangolare circondata da basse costruzioni dalle mura calcinate di bianca pittura e impreziosite da finestre e finestrelle dai vetri colorati e impreziositi da graziosi motivi floreali o geometrici.
 
Le porte incorniciate, così come le finestre da stipiti di legno scuro, spiccano severe sul bianco abbacinante dei muri. Dalle terrazze spuntano alte e serrate fascine di legna messa a seccare e che serviranno per riscaldare le fredde giornate invernali.
 
Al centro della piazzetta un piccolo stupa, una fontanella e tutto attorno sedute su delle panche, fatte di fango frammisto a paglia, intonacate di bianco e inglobate nei muri, un numeroso gruppo di donne conversa animatamente, forse commentando pregi e difetti, fortune, meriti e demeriti della festeggiata che incontreremo più tardi.
 
Pancacce e lunghi tavolacci, come si trovavano una volta nelle nostre osterie di campagna, accolgono un variegato campionario di umanità locale: signore composte e distinte con i loro figli più piccoli, gruppi di giovani indecisi se atteggiarsi a “PunkMetallari” o chissà quale altro stereotipo giovanile lì giunto via cavo o via satellite. Sono i classici “fashion victim” : calzano Nike super trandy, jeans a vita bassa e cavallo raso terra, t-shirt e felpe da basket, cappellino da baseball, bevono coke e birra, mostrandosi annoiati di tutto e di tutti. Gli uomini, i mariti sono in terrazza ad accanirsi con i dadi usando gli universalmente diffusi “cauri” come temporanea moneta per le puntate.
La cucina, a destra della zona bar-ristorante, è il classico antro a tre stelle fumose, che spesso incontriamo nel nostro vagabondare ma ancora più basic, meritandosi una quarta stella! Nell’acqua ribollente di tre grandi pentoloni, posati su altrettanti improvvisati focolari, si agitano strani ingredienti. Nel primo, l’acqua tinta di rosso, si agita scompostamente un insaccato locale, una lunghissima salsiccia rosso sangue, cerca invano di sfuggire alla cottura, ma la cuciniera, una donna vigorosa munita di una grande pala di legno, la ricaccia inesorabilmente dentro. Il secondo pentolone è attentamente accudito da un’altra cuciniera, le gote piene arrossate dal calore e le braccia da sollevatrice di pesi, che appassionatamente rimesta con buon ritmo nell’acqua giallo-senape do ve si rincorrono, nei vortici della bollitura pezzi di verdure che potrebbero essere zucchine melanzane carote o qualsiasi altra cosa più o meno commestibile. Il terzo pentolone mi dà sollievo, è solo colmo di acqua calda che serve per il cucinare.
 
Un’altra postazione, accanto alla scala che sale in terrazza, è la stazione di lavaggio per le stoviglie utilizzate per cucinare e quelle usate per servire i piatti ai coraggiosi e benestanti avventori del ristorante che gode buona fama, forse perché è l’unico del villaggio o forse perché il villaggio più prossimo è a qualche ora di cammino su e giù per monti e valli!”
 
Abbandoniamo “l’antro delle cucine” e saliamo in terrazza. Da qui si domina lo spettacolare alveo del Kali Gandaki, lo sguardo si spinge sino al promontorio di Chhusang che sorge dal fiume dominandone l’orizzonte. Due pareti scoscese e altissime fanno da argine alla tremenda forza delle acque durante la piena monsonica che cerco di immaginare nella sua furia devastante.
Quella di destra è segnata da un sentiero che visto da quassù è una linea sottile zigzagante persa nella grandiosità della parete rocciosa a sua volta ridimensionata dall’enormità dello spazio che la sovrasta.
 
Mentre assaporo con tutti i sensi questa mistica visione di bellezza, potenza e armonia metto a fuoco una piccola, ordinata carovana di cavalli che lentamente avanza nel greto del fiume. Le loro minute, scure siluette spiccano nel riflesso argenteo dell’acqua e, pur perdendosi nell’immensità in cui si muovono, la arricchiscono di una diversa armonia che mi delizia e mi commuove.
 
Ritorniamo sui nostri passi e raggiungiamo la casa della festeggiata che scopriamo essere accanto alla guesthouse che ci ospita. Più tardi assisteremo all’inizio della cerimonia, ma questa è un’altra storia. Terminano qui gli appunti di giornata, o meglio quegli appunti che mi è parso dover riportare a futura memoria.

13 Settembre

Vi scrivo dalla Clift Road – seconda parte – destinazione SAMAR

Dopo l’ultima casa di Chele, dove abbiamo alzato le nostre tende, un largo sentiero attraversa il falsopiano pietroso e selvaggio, dipanandosi in direzione Nord, con un costante incremento della pendenza. Nel pomeriggio raggiungeremo Samar, altitudine 3660 metri, stiamo entrando nella parte più impegnativa del trekking. Breve sosta per goderci una bella visione di Chele che spunta dalle nuvole bianche e vaporose che si dissolvono rapidamente sospinte via dai primi caldi raggi solari.
 
Un piccolo gruppo, due donne e un uomo negli abiti tradizionali indossati per la festa di compleanno svoltasi ieri a Chele, ci supera caracollando lentamente su tre piccoli cavalli bardati per l’occasione precedendoci sul sentiero che dal falsopiano s’insinua nelle strette gole di splendide formazioni di arenaria rosa levigate e arrotondate dall’acqua e dal vento.
 
Seguiamo il “trail” giù, giù in fondo alla gola, dove rumoreggiano le acque trasparenti di un ruscello.  Una ripidissima salita ci porta in cima ad un vasto pianoro erboso al termine del quale, inaspettato e splendido, si apre un profondo canyon formato dal Ghyakar Khola, un affluente del Kali Gandaki.
 
La visione è unica nella sua spettacolare bellezza primordiale: sull’alto costone di sinistra le case del piccolo villaggio di Ghyarar precedono un vasto appezzamento di terreno ingannevolmente pianeggiante, dove i contadini Gurung, l’etnia che abita il villaggio, hanno creato, coltivando cereali, uno splendido arazzo dai colori tenui e delicati.
 
Dietro i campi coltivati, dietro le case del villaggio, dietro le montagne che gli fanno da corona, incantata e incantevole, la piramide di cristallo e di neve, la candida massa del Nilgiri che tutto domina dai suoi 7000.
Il costone di destra, che percorriamo, è un’erta, impervia parete che strapiomba nel profondo orrido, incisa dal sentiero che ne scava la morbida roccia. Traccia impegnativa in cui ai brevi tratti pianeggianti si alternano lunghe, dure, aspre salite tra irregolari gradoni naturali e stretti passaggi dove è normale, percorrendoli, addossarsi alla parete.
 
L’ardua fatica è sempre gratificata dalla consapevolezza che tutto quanto ci circonda e ci avvolge con la sua malia, è una realtà unica, non riproducibile e che l’unico modo per incontrarla e comprenderla è viverla!
 
“Il viaggio può diventare racconto, un racconto, spesso, spinge a un altro viaggio, ma un racconto non è un viaggio!” (Aime)

Mentre con impegno cerchiamo di distribuire nel mondo migliore le nostra attenzione tra il tracciato, guarda bene dove metti i piedi!, e l’irresistibile paesaggio, il Nilgiri ci insegue e ci affascina affacciato sopra la tavolozza delle coltivazioni, una lunga carovana ci raggiunge con i cavalli e i loro cavalieri che, superandoci a sinistra, si ritrovano ad avanzare sul bordi esterno del baratro……

Siamo in cima al “Dajonri La” quota 3726 metri! Da qui si vede, un poco più in basso, Samar con i suoi campi coltivati, una buona tazza di the, una breve sosta, immagini da riporre nel cuore e ovviamente da fotografare, e poi saremo presto la meta.

14 Settembre

Vi scrivo dalla tormentata pista che da Ghemi, 3520 metri ci conduce a Tsarang La, 3870 metri, e poi a TSARANG, 3560 metri

Non è una buona mattinata per me, mi sento stranamente fiacco e, di conseguenza di umore grigiastro. Nel cielo imbronciato il sole gioca a nascondino tra masse enormi di nuvole …grandi vele spiegate al vento.
 
La pista che risale la vallata si srotola tra falesie rosa e rosso acceso, davanti a noi, isolato nella vastità dell’arido paesaggio, si profila un lungo muro, non molto alto, ma coloratissimo. È il “muro mani”, il muro delle preghiere, il più esteso del Mustang che dipinto vivacemente di strisce verticali gialle e rosse si allunga attraverso la vallata come un antico drago.
Sopra e lungo i suoi fianchi sono deposte centinaia di pietre con inciso in sanscrito le due invocazioni rituali:
 
O mani padme hum e A sha sa ma ha

Due ore sono trascorse da quando, questa mattina, siamo partiti e ora siamo in cima al passo di Tsarang (3870) posso citare un breve passo del libro di Peissel, che nel lontano 1965 fece per primo lo stesso nostro viaggio:
 
“davanti a noi si stendono gli immensi altipiani dell’Asia Centrale, che si dispiegano a perdita d’occhio verso Nord come grandi onde agitate dai profili arrotondati, ricoperti di neve come la schiuma del mare dopo una tempesta”
 
Mentre l’insostituibile Furba, sempre attento, distribuisce tazze fumanti di the speziato e biscotti dolci, contemplo una volta ancora, sorpreso e soddisfatto, la lunga linea bianca e irregolare che incide, zigzagando, l’impervia vallata che abbiamo faticosamente risalito.
 
Riprendiamo il trekking, una lunga discesa ci condurrà a Tsarang riportandoci a quota di 3560 di partenza.
Tsarang appare, come un sapiente, colorato tocco di magia, tra i rilievi contorti di uno sfondo aspro e selvaggio. Come un delicato dipinto naif dai toni del rosso acceso e del verde, chiazzato di bianco e sulla cresta che domina una profonda gola si staglia il bianco castello del Palazzo Reale e più in basso, alla sua destra, la struttura maestosa del Grande Monastero dipinta di rosa e di rosso mattone
 

LO MANTHANG

E il mattino s’annuncia con la voce cortese dell’aiuto cuoco, l mitico “Furba” che proclama: good morning madam, good mornin sir, it’s morning coffee time! Two half cup, milk, no sugar! I leave them outside the tent!”
 
Insostituibile e affidabile Furba, sempre attento alle nostre necessità, sempre sorridente, così tenero da mostrarci anche la fotografia della moglie che, in formato tessera, ritrae il viso simpatico di una giovane donna un po’ rotondetta. Forse senza le attenzioni di Furba il nostro viaggio non sarebbe così mitico.
 
Ci inerpichiamo su alti e sconnessi gradini di una consunta scala di legno e, dal ballatoio, transitiamo nella buia cucina, animata da ombre indistinguibili, tra dense volute di vapori che, pesantemente speziati, escono da capienti pentolacci posati su focolari fiammeggianti.
 
Inseguiti da invisibili lingue odorose, transitiamo su un ampio ballatoio che introduce, tramite una piccola porta con tanto di catenacci, prontamente aperti dalla nostra guida, nella “piccola stanza del tesoro”.
Ennesima tazza di the e, finalmente, dal recesso di un piccolo cassetto di un elegante scrigno, viene estratta la perlina d’agata, subito sottoposta alla prova del fuoco, o del capello?: l’agata sapientemente lavorata all’acquaforte, viene avvolta in un capello, che l’accompagnatore si è strappato dalla folta capigliatura, al capello avvicina la fiammella dell’accendino ma… non accade nulla, il capello non si brucia dimostrando così che la pietra è “vera” e non di plastica! Prova empirica? Può essere, ma non trovando altra spiegazione dello strano fenomeno non ci resta che accettarlo. Segue lunga e simpatica trattativa e alla fine lo GZI è di Anna, ma siamo solo all’inizio della storia che farà si che Anna divenit la proprietaria, non solo materiale, ma anche spirituale dello GZI.
 
Proprio così, perché per evitare che le proprietà spirituali e magiche dello GZI vadano perse o che, peggio ancora, si rivoltino contro chi lo detiene senza averne il diritto, è indispensabile celebrare una funzione che lo liberi dal precedente legame per crearne uno nuovo.

La benedizione

Il monaco cui saremo presentati, apparentemente giovane, ci viene incontro con il viso simpatico e sorridente, vestito della sua tonaca arancione/amaranto, e del suo mantello dello stesso colore, sgualciti entrambi e abbondantemente decorati di antichi segni lasciati dal loro uso continuo e prolungato.
 
Non è semplicemente un monaco, bensì un Lama ch è appena uscito da un isolamento durato novanta giorni, ed è anche “colui che ha la conoscenza” e solo un Lama può celebrare la funzione che seguirà.
 
Dopo una brevissima presentazione seguiamo il Lama, che nel frattempo si è procurato un piattino con sopra del riso, nella sua piccola e disadorna cella.
 
Il Lama si siede e apre un libro delle preghiere, uno di quei volumi costituiti da tanti fogli non legati fra loro, scritti in “sanscrito” con caratteri fitti, fitti conservati tra due copertine di legno rivestite di tessuto. Accende tre bastoncini d’incenso, che trattiene tra le dita, e inizia a leggere: la voce chiara e tonda esce dalla bocca fluttuando dolcemente nell’aria assieme alle spire d’incenso. Continuando a salmodiare prende dal piattino una piccola quantità di riso che avvicina alle labbra e trattenendolo nella mano, vi soffia sopra, poi lo rimette nel piattino, dove in precedenza è stato deposto anche lo GZI.
 
Al suono ipnotico dei “mantra” che si susseguono ininterrottamente, si aggiunge la gestualità delle mani del Lama che ricamano l’aria di esoteriche figure che si trasformano in suppliche e benedizioni.
 
Più volte il Lama soffia lo spirito delle preghiere sul riso che si è accostato alle labbra e mentre l’incenso si consuma e i mantra riecheggiano nella piccola stanza, l’essenza soprannaturale dello GZI e la sua materia migrano verso l’anima e il corpo di Anna che è invitata dal Lama a indossare lo GZI che ora la proteggerà dalle calamità.
 
A noi tutti che assistiamo alla benedizione, il Lama dona un grano di erbe da ingerire, e noi presi e persi nell’emotività del momento, così facciamo!